sabato 1 novembre 2025

Di corpi, di versi: l'affollata solitudine di Pier Paolo Pasolini

 Ripropongo in occasione del cinquantenario della morte di Pier Paolo Pasolini il mio breve saggio originariamente scritto e pubblicato nell'autunno del 2002 sulla rivista La Mosca di Milano.


 1) Ginnasio-Liceo Alessandro Manzoni di Milano. L’anno il 1957, o il ’58. 

Venivo dalla provincia. Entrai un giorno in classe con Ragazzi di vita in mano. Non avevo nell’animo nessuna volontà di provocare un bel nulla, mi sembrava che potesse essere un viatico buono per essere accolto tra i miei coetanei, tutti figli della borghesia buona milanese. La futura classe dirigente, ripeteva il preside. Non era nelle mie prospettive una simile destinazione, in mezzo a loro ero straniero per troppi aspetti. Cercavo accoglienza, tra i compagni di classe di Milano. Non era forse la grande e moderna Milano, la città dove le cose succedevano, la città sempre in anticipo sui tempi? E non era forse quella la scuola dove ci si educava alle umane letture?
‘Ah, il romanzo di quel culo…’, mi risposero ghignando in due o tre, un po’ goliardi ma di radici ben interrate, proprio quelle che non avevo io.
‘Quel  culo’, con i suoi borgatari, da lui percepiti e descritti come sradicati millenari, parlava in qualche modo a me ma non a loro. Pensai a Pasolini uomo forse per la prima volta, fin lì per me era solo l’autore di un breve  romanzo che amavo. Pensai per la prima volta alla sua solitudine e ripensai alla mia, alla difficoltà di essere accolto, come profondamente desideravo.
Qualche anno più tardi rincontrai Pasolini nel suo film Il Vangelo secondo Matteo. L’anno il 1964. Pasolini era già carico di glorie. Ma quel Cristo aveva nell’espressione e nei gesti la disperata violenza della solitudine, di chi cerca accoglienza nel mondo. E ripensai alla solitudine di Pasolini uomo, pur nel frastuono provocatorio della sua ricerca di successo.
Ho ripensato alla sua solitudine ancora in un’altra occasione, ma questa volta con un sentimento profondo di rabbia. Come gli saltava in mente di definire in blocco gli studenti come dei figli di papà? 
In quegli anni, tra la fine dei sessanta e i primi settanta, nelle Università mettevano piede per la prima volta nella storia del paese numerosi figli di proletari. Si sradicavano da un territorio antichissimo per entrare in uno nuovo, nemmeno a cercarli con buona volontà in quello dal quale provenivano si sarebbe potuto trovare un libro. Paradossalmente era più facile trovarci qualche verso, nelle preghiere dei santini, nei calendari di frate Indovino. Per sostare in qualche modo nel territorio nuovo, dove i ‘papà’ erigevano troppi aristocratici steccati  contro i barbari, per pagare tasse, libri e molto spesso anche il proprio mantenimento, c’erano i “lavoretti”,  cioè, diminutivo a parte, lavoro nero. Il tutto era quasi epico, ma faticoso. Non eravamo tutti figli di papà. E ci riconoscevamo, nei corridoi delle Università. Dal portamento, dai vestiti, dal linguaggio. Ci si sentiva in effetti meno soli.
Riprendo in mano oggi l’opera in versi di Pasolini. L’eco dei frastuoni del mondo cercati e provocati si sente qua e là, ma più forte sento il timbro di voce della solitudine. E’ questo il ‘luogo’ topico della poesia di Pasolini? Più semplicemente è il luogo dal quale continua a parlarmi.

Moralità o poesia/ o bellezza, non so,/ protendo questa rosa/ a rispecchiarsi sola.[1]
Se Narciso non rompe gli specchi la sua solitudine genera autodistruzione. Ma, come vedremo, Narciso che rompe gli specchi e conosce l'altro avrà ugualmente la solitudine come inesorabile, splendida compagna.
Rompere gli specchi è peccato? Se ne può conservare sentimento di colpa. Ma c’è un momento in cui il vergine, l’innocente, decide di farsene carico, di superare la paura di peccare. Il poeta che si dice Usignolo della chiesa cattolica (raccolta di poesie scritte tra il 1943 e il 1949) guarda ormai senza timore il diavolo apparso, è pronto[2]. Narciso s’è guardato abbastanza durante la fanciullezza[3].
E la poesia? Quando s’inoltra nel peccato  il vergine, ancora insicuro, stringe in mano il ritratto di Radiguet, pensa accigliato a Gozzano[4]. Ma la scelta apre  comunque con decisione ed è accoglienza senza compromessi del cieco affanno di fronte a un corpo, a un caldo viso apparso all’improvviso[5]. Sarà, per il poeta, per l’uomo, ossessione, vissuta. E l’amore per la bellezza? Narciso che rompe gli specchi ha verso di sé un moto, di uguale intensità, di disprezzo e tenerezza[6].  Ingenuità e consapevolezza  sembrano affondare in oscuri presentimenti.
L’attrazione verso la bellezza è dunque tutt’uno con quella verso il peccato, poesia e vita ci appaiono strette da un legame in tensione polarizzata:  purezza e impurità, salvezza e dannazione, paradiso e inferno. Narciso che rompe gli specchi assume su di sé con angoscia e spavento le sue contraddizioni. Narciso che si divincola dallo specchio ha un ultimo gesto: protende una rosa al rispecchiamento. Nemmeno il poeta sa di cosa sia simbolo quel fiore, se di moralità, di bellezza o di poesia. E il gesto? E’ la coscienza della impossibilità di un allontanamento definitivo? E’ un’irrisione al mito o alla vita? O alla morte in vita? E’ un esorcizzare la morte della bellezza, della poesia, della vita stessa? O è gesto che indica la prossima autodistruzione della poesia, l’impossibilità per la poesia di sopravvivere se l’uomo sceglie il peccato?
Al di là delle possibili interpretazioni  quella rosa, tesa da sola al rispecchiamento, rimanda, mi sembra, ad altro. Narciso-Pasolini sa che in quello specchio c’è, riflesso, anche il volto di sua madre. Alla quale, come lui stesso dice apertamente, è legato da un amore insostituibile. E’ la madre che gli ha insegnato nient’altro che il piacere di essere ciò che sono[7],  e l’amore di lei, non represso, non dà posto/ a ipocrisia e viltà[8]: quell’amore lo ha reso sì libero di essere se stesso nella sua diversità ma lo ha anche reso prigioniero per sempre. Amare per lui significherà per sempre amare soltanto sua madre. Solo per essa, impegno tutto il cuore[9]. Per gli infiniti amori occasionali di cui la sua vita sarà affollata arderà in lui solo la carne[10]. La consapevolezza che accompagna Narciso dunque, all’atto di inoltrarsi nel mondo, riguarda una drammatica condanna, quella alla solitudine. Sei insostituibile. Per questo è dannata/alla  solitudine la vita che mi hai data.[11]. L’infinita ‘fame d’amore’ (Forse nessuno è vissuto a tanta altezza/ di desiderio…[12]) dovrà accontentarsi  dell’amore  di corpi senza anima[13], l’unica anima amabile rimanendo per sempre quella della madre.
Quando a  questa condanna si aggiungerà quella del mondo, quando, dal loro ‘museo vigilato’, gli adulti condanneranno il Fanciulletto perverso con le gemme/ dell’Europa terse nel mio sesso[14], il poeta starà fermo dalla parte del desiderio, del suo Narciso gioia e solitudine, né si curerà di redenzioni possibili, non si alleerà col ‘cuore onesto’[15], che è troppo puro e ha il freddo della morte e se mai occorrerà ascoltarlo sarà solo in  prossimità della morte. Condanna interiore e condanna pubblica diventeranno da questo momento compagne di vita a cui però impedire di occupare troppo spazio a scapito della gioia e del piacere. La purezza non dovrà mai soverchiare la gioia del peccato. Piuttosto che rischiare meglio eccedere nel peccato sia pure col corollario della solitudine. Liberare totalmente la vitalità che è disperata di suo e poi testimoniare, nel verso stesso come vedremo, la necessità dell’indecenza, dell’eccesso, dello scandalo contro coloro che condannano. Proteggere la relazione con l’altro con una ‘impura virtù’. E ripetere, ripetere all’infinito, fino all’estenuazione, consumare relazioni perché non si consumino, perché il peccato resti peccato e la gioia gioia del peccato. Esibizione e testimonianza dello scandalo, cioè, come è stato detto, la ‘necessità morale dell’indecenza’[16], saranno la risposta franca e diretta contro la società che rifiuta.
Impurità contro purezza, desiderio, diversità, soddisfazione del piacere, sono i temi che nella poesia di Pasolini ruotano intorno a quello della solitudine. Con l’insistenza ossessiva della coazione e dell’imperativo si articolano in una sterminata affabulazione anche fino a stremare il verso, a rischiare il non-verso.
E necessità e volontà del conflitto e delle contraddizioni trovano in una infinita serie di antitesi e di sintagmi ossimorici le loro figure logiche. Così le colpe sono innocenti, la purezza odiata se non è quella dell’animale o del libertino, il peccato e la corruzione sognati, l’animo un ‘crogiolo d’amore tumorale’, l’esistenza un ‘rottame stupendo’, la gaiezza ‘paradisiaca e immorale’. L’angelo arde impuro. Il poeta è ‘gelo e sole’. La vita ‘scandalo e festa’.
E l’amato ‘endecasillabo di avorio’[17], che si aggira ‘tra gli smalti e l’acqua dell’Arcadia’, lui che ama solo la gioia e la purezza e che non vuole peccati o pianti di fanciulli, come può amare ciò che il poeta ama in se stesso, la ‘pazzia di acqua e di assenzio’[18], le finte innocenze, l’isterismo nascosto ‘tra i panni dell’eretico’, ‘lo scisma’ del proprio linguaggio? La risposta è ormai scontata: l’angelo deve ardere impuro, il cuore elegiaco deve proteggere la poesia di virtù impura. E dunque ripetere, ripetere l’endecasillabo all’infinito, fino all’estenuazione, allungato o accorciato, condensato o slabbrato , sgambetti di ritmo al suo interno, sospensioni o arresti del senso andando a capo. Scandalo e festa. Terzine di tradizione riconoscibile. Irriconoscibile, scismatico, eretico, ma sempre lì, il finto endecasillabo con la sua finta innocenza. Finché il verso non scioglierà ogni legame con la metrica tradizionale  ( e sarà dal 1963, 1964 in avanti).


3)E la notte in giro, come un gattaccio/ in cerca d’amore…[19]

Con i loro freschi corpi, coi calzoni un po’ lisi nel grembo, con la loro sacca tiepida[20], quelle facce vivide di cuccioli lupi, quei maschi adolescenti dalla bella nuca… sono a decine, a centinaia. Ma il poeta non può amarne nemmeno uno. Il suo è amore di pura sensualità, replicato nelle valli sacre della libidine/ sadica, masochista[21]. Ma meglio la morte che rinunciarvi. E quando il desiderio incalza è una ansia funeraria[22] quella che precede una tardiva soddisfazione. E l’atto, con quei maschi che portano nel grembo un segreto impuro come un giglio, bisogna ripeterlo mille volte[23].

Il peccato e la condanna, l’impurità e l’eccesso hanno il loro paesaggio. Quei corpi da amare vivono tra ruderi e grotte abitate da feci e fanciulli o in borgate in disfacimento o sul lungofiume che, nella sera che sa di orina, riecheggia di passi viziosi. ‘Erba sozza delle marcite’, ‘deschi approntati dentro porcili’, ‘infette marane di borgata’. Gioisce qui una gioventù ironica fatta di ‘peoni’, poveri e pagani, da sempre ‘barbari’, che hanno nel calore del sesso ‘la propria unica misura di vita’. Si negano e si concedono con violenza, puri e corrotti, popolo mai abbagliato dalla modernità eppure sempre il più moderno, che vive come il poeta ‘in una sola generazione tutte le generazioni’, schiavo che canta la propria leggerezza, che inebria la città coi suoi fischi e i suoi canti. Proletari la cui ‘allegria è religione’ per il poeta. Periferie di ‘ardenti e acidi immondezzai’, che sanno di ‘sangue marcio’, ‘borgate tristi, beduine’[24] percorse dal vento, da ragazzini ‘stridenti nelle canottiere a pezzi’[25], da irose prostitute, da grappoli di militari e operai. Una vita che è ‘pura malinconia’.
E’ la scenografia ricorrente nei versi sin dalla raccolta  Le ceneri di Gramsci del 1957 fino a Trasumanar e Organizzar del ’71 e oltre. Scene riprese dall’occhio nelle lunghe solitarie camminate serali, al momento del rientro nelle case o nell’immediato dopocena. Quando le disillusioni (la fine delle speranze in una trasformazione profonda della società suscitate dalla Resistenza e l’imborghesimento anche di proletari e sottoproletari dentro il neo-capitalismo), l’amarezza per le condanne alle sue opere, il disincanto verso i movimenti rivoluzionari del ’68 e infine l’avanzare dell’età  occuperanno l’animo, sarà il momento del rimpianto per un’epoca conclusa e ormai lontana come un mito. E acquisterà  più spazio la riflessione sul proprio destino. Il tono della voce, che diviene via via anche rabbioso o ironico, troverà sempre più consistenza nel doppio registro dell’antitesi, legata da una parte alla irrinunciabile gioia del sesso senza anima, dall’altra alla solitudine. Afferma il poeta nel 1963, quando è ormai famoso e agiato (oltre che perseguitato dalla giustizia italiana): io riconosco/ciò che conobbi: sole e solitudine[26]. Ma è sulla solitudine che l’accento cade più frequentemente. Le relazioni col mondo sono diventate più difficili. Le file degli amici d’un tempo si sono assottigliate …ho perso la mia compagnia/ di poeti dalle facce nude, aride/di divine capre, con le fronti dure/ dei padri padani…[27], e non senza sue colpe: non ho saputo avere la grazia/ per tenermeli stretti[28]. Anche in relazione  ai suoi rapporti intimi non pochi versi mettono definitivamente a nudo la sua condizione :
…i baci, ogni volta a una bocca diversa,
sempre più vergine,
sempre più vicina all’incanto della specie,
alla norma che fa dei figli teneri padri,
piano piano
sono divenuti monumenti di pietra
che a migliaia affollano la mia solitudine.[29]


4) Il diletto deserto
Ma è solitudine amata, voluta … ‘come un re’[30]. Narciso sembra lontano. Che ne è del mio narcisismo, si chiede, in Trasumanar e organizzar, il poeta che sente prossima la fine della sua carriera: Io non ho più il sentimento/ che mi fa avere ammirazione per me[31]. In questo modo c’è il rischio del silenzio: cosa potrà mai comunicare ora il poeta se non se la sente più di comunicare l’unica cosa che fin qui ha comunicato e cioè, come abbiamo già visto, ‘il piacere di essere ciò che sono’?
E aggiunge subito dopo: se in questo modo riuscirò a scrivere ancora versi, si tratterà di versi ‘appena passabili’ e avverrà solo per abitudine. Che è come dire che proprio a prendere eccessive distanze dal proprio Narciso si finisce con lo scrivere pochi versi e mediocri.
Nei nuovi registri dell’ironia e dell’umorismo, che agli occhi del poeta appaiono ora come unici possibili percorsi stilistici, Pasolini continua a fare poesia ammirandosi, guardandosi anche quando parla di sé che fa poesia. E non si pensi che questo ammirarsi e guardarsi risulti una sovrapposizione che vada espunta per poter godere dei versi buoni: nel verso ormai completamente libero da costrizioni tradizionali Narciso continua a stare per necessità in scena dal primo all’ultimo quadro di tutti gli atti a dire poesia. Col suo carico, esibito o sotteso, di abbandono e solitudine.
Nella nota finale scritta per l’edizione di Trasumanar e organizzar, Pasolini avverte che la raccolta è nata sotto l’idea della diminuzione di futuro per la propria esistenza e, per reazione, dell’aumento del piacere di vivere. E la ricerca del piacere continua, nei versi, a vivere di momenti e luoghi ormai antichi. E torna, immancabile, l’accento sulla solitudine. La solitudine: bisogna essere molto forti/ per amare la solitudine… E’ la poesia Versi del testamento[32]Quando in vecchiaia la stanchezza comincia a farsi sentire, avverte il poeta, il rischio è quello di non avere forze bastanti per uscire, affrontare la passeggiata serale. Nella quale, aggiunge in modo tremendamente inquietante, non si devono temere/ rapinatori o assassini. Ma sarà l’incontro occasionale di puro sesso a soddisfare il desiderio di solitudine. E la solitudine è ancora più grande se una folla intera/ attende il suo turno: cresce infatti il numero delle sparizioni. Ogni incontro è un momento della solitudine e più caldo e vivo è il corpo gentile/ che  unge di seme e se ne va,/ più freddo e mortale è intorno il diletto deserto.  Per una camminata senza fine per le strade povere bisogna avere gambe buone, una resistenza fuori del comune: bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani. Ma non c’è nulla al mondo, nessuna soddisfazione che la vita possa offrire che valga l’incontro nella sera con la  solitudine.




(Il testo presente è una rielaborazione di quello pubblicato nell'autunno 2002 su La mosca di Milano)


[1] Il Narciso e la rosa, è in L’usignolo della chiesa cattolica, comprende poesie scritte tra il
1943 e il 1949. Vedi P.P.Pasolini Bestemmia, Tutte le poesie, Garzanti, pag. 333.
[2] Sermone del diavolo, in L’usignolo della chiesa cattolica, cit. pag. 323
[3] Il Narciso e la rosa, cit. pag. 332
[4]Sermone del diavolo, cit. pag. 323.
[5] L’illecito, in L’usignolo della chiesa cattolica, cit. pag. 326.
[6] Solitudine, in L’usignolo della chiesa cattolica, cit. pag. 328.
[7] La nascita di un nuovo tipo di buffone, in Trasumanar e organizzar, edita nel 1971, in P.P.
Pasolini, Bestemmia, cit. pag. 902
[8] La realtà, è in Poesia in forma di rosa, comprende poesie scritte tra il 1961 e il 1964. Vedi
P.P.Pasolini, Bestemmia cit. pag. 654.
[9] Ibidem, pag. 653.
[10] Ibidem pag. 653.
[11] Supplica a mia madre, in Poesia in forma di rosa,  cit. 640.
[12] La realtà, cit. pag. 653.
[13] Ibidem, pag. 640.
[14] Lingua, è in L’usignolo della chiesa cattolica, cit. pag. 351.
[15] Dies irae, ibidem, pag. 360.
[16] Vedi Franco Fortini, I poeti del Novecento, Laterza, pag. 188.
[17] Lingua, in L’usignolo della chiesa cattolica, cit. pag. 353.
[18] Ibidem, pag. 353.
[19] Poesie mondane, in Poesia in forma di rosa, cit. pag. 639.
[20] Le belle bandiere, ibidem, pag. 740.
[21] Ibidem, pag. 740.
[22] La realtà, cit. pag. 653.
[23] La realtà, cit. pag. 654.
[24] Il pianto della scavatrice, in Le ceneri di Gramsci, comprende poesie scritte tra il 1952 e
il 1957. Vedi P.P.Pasolini Bestemmia, cit. pag. 248.
[25] Ibidem, pag. 249.
[26] La persecuzionein Le ceneri di Gramsci, cit. pag. 686.
[27] La realtà, cit. pag. 649.
[28] Le belle bandiere, cit. pag. 736
[29] Ibidem, pag. 741
[30] Ibidem, pag. 737
[31] La nascita di un nuovo tipo di buffone, in Trasumanar e organizzar, Vedi Bestemmia, cit.
pag. 901.
[32] Versi del testamento, in Trasumanar e Organizzar, cit. pag. 959.





martedì 22 luglio 2025

Audiolettura n°2 da 'Bestie Animali Specie', youcanprint, 2024


Dalla sezione: Diario d'Occidente:
Le cicogne di Micene
a sottofondo Remembering di Avishai Cohen
impostazione musicale di Emanuele Rabissi
per ascoltare clicca qui

non ho alcun permesso per la musica semmai ne rispnderei

martedì 3 giugno 2025

Caro amico, ti scrivo in digitale

uovo con stecco
 

Caro amico, ti scrivo in digitale

domenica 1 giugno 2025

Dentro le vene del secolo, di Nino Iacovella, lettura critica di Bestie, animali, specie, di Paolo Rabissi

  

uovo con stecco

domenica 23 marzo 2025

Quel dialogo che ha la virtù di evitare le scazzottature. Le guerre?

                                                                               

                                                                      uovo con stecco

Una persona illuminata mi ha invitato a sbrogliare una mia postura intellettuale. Quella che non crede alla capacità del dialogo di...dialogare veramente. Penso da sempre che comunemente ciò che viene chiamato dialogo, nella sua accezione di salvaguardia democratica, sia costituito da due momenti. Nel primo c'è l'ascolto dell'altro, indispensabile. Nel secondo c'è la dichiarazione di quanto pensa l'altro. Segue poi una articolazione più o meno ricca delle due posizioni. Alla fine nella maggior parte dei casi ciascuno conserva la propria posizione che anzi probabilmente si è rafforzata. Di qui il mio scetticismo sulle presunte capacità del dialogo di favorire reali mescolamenti di pensiero, arricchimento del proprio bagaglio culturale.

La persona illuminata mi prende di sorpresa, dice che tutti i dialoganti sanno benissimo che ciascuno al termine del dialogo conserverà la propria posizione. Bene dico io, dunque è inutile sbandierarlo come necessario, democratico, illuminato...

Invece lo è, mi sento dire, perché è la via per evitare che i due facciano da subito a cazzotti tra loro.

Ma due persone predisposte a dialogare sono per se stesse persone non disposte ai cazzotti, dico io. Insomma se si dialogasse di più si eviterebbero le guerre? No. Però, conclude l'illuminata persona, le si può allontanare, rallentare, disturbare, il che fa comunque risparmiare vittime.

Questo spiega perché Pericle, per onorare i caduti in guerra contro Sparta, esalta, come riferisce Tucidide, le capacità di dialogo degli Ateniesi che hanno fatto di Atene un faro di civiltà di democrazia, di cultura, di arte.

Poi viene da pensare al comportamento di Atene nei confronti di Melo, isoletta di pochi pescatori che avevano il torto di essersi dichiarati neutrali nella guerra con Sparta. Gli ambasciatori ateniesi, secondo Tucidide, arrivano all'incontro, al dialogo, dicendo in pratica che essendo loro superiori, i Melii era meglio che si arrendessero subito, avrebbero evitato vittime e distruzioni. I Melii rispondono che la giustizia degli dei li proteggerà. Gli ateniesi rispondono che è proprio dagli dei che hanno imparato che in uno scontro in cui uno è inferiore, quest'ultimo deve accettare di sottomettersi, di giustizia si può parlare solo quando i contendenti sono alla pari, in questo caso l'asimmetria dei poteri garantisce ad Atene che è la più forte la protezione degli dei. Fine del dialogo.  Entrambe le parti sapevano sin dall'inizio come sarebbero andate le cose. La parola alle armi. Atene, per la rabbia della resistenza accanita dei Melii massacrò tutti i maschi adulti, ridusse in schiavitù donne e bambini, devastò la città, i villaggi e i campi. 

Sorvoliamo sul fatto notissimo che la democrazia elaborata da Atene si fondava sull'esclusione di donne, schiavi e meteci.

Sembra di poter concludere che il dialogo è buona cosa nel senso che magari è capace di evitare scazzotatture, ma le guerre...

Occorre poi aggiungere che Sparta distrusse ferocemente Atene, qualcuno rammentò il comportamento tenuto da Atene con i Melii alleati di Sparta. Sparta attaccò per prima nella guerra ma l'ateniese Tucidide non esita a dire che ciò fu dovuto alla preoccupante e prepotente egemonia che Atene stava instaurando al di là dell'Attica.


sabato 21 dicembre 2024

Un deciso NO al Ministro dell'istruzione

 



Lettera del prof. Giancarlo Burghi, del liceo T.Tasso di Roma. 18 Dicembre 2024_ 

Egregio Ministro, Le scrivo di nuovo dalla desolazione della “trincea”: quella in cui ogni giorno, con le studentesse e gli studenti,  combattiamo l’eterna guerra contro la semplificazione e la superficialità. Oggi, però, le scrivo per ringraziarla delle Linee guida sull’insegnamento dell’educazione civica che ci ha inviato all’inizio dell’anno scolastico. Da oggi abbiamo un punto fermo nel nostro lavoro di docenti ed educatori: ci dirigeremo nella direzione esattamente opposta a quanto ci indica.

L’educazione civica, secondo lei deve «incoraggiare lo spirito di imprenditorialità, nella consapevolezza dell’importanza della proprietà privata». In modo quasi ossessivo nel documento traccia l’idea di una sorta di “educazione alla proprietà ”. Ma cosa dovremmo farci di questo slogan vuoto? Stiamo oltrepassando finanche il senso del ridicolo, andando oltre la teoria delle tre “i” di berlusconiana memoria (inglese, impresa, internet).

Ai nostri studenti, signor Ministro, l’articolo 42 della Costituzione lo leggiamo e lo spieghiamo: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge […] allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere [..] espropriata per motivi di interesse generale “. Dice proprio questo la Costituzione! Però non si ispira a Pol Pot ma alla dottrina sociale della Chiesa, al cristianesimo sociale di Giorgio La Pira e Giuseppe Dossetti.

Nelle Linee guida Lei continua, poi, con l’affermazione di sapore thatcheriano, ma in realtà generica e vuota quanto la prima, per cui dovremmo insegnare che «la società è in funzione dell’individuo (e non viceversa)». Vede Ministro, se le dovesse capitare di sfogliare la Costituzione italiana scoprirebbe che il termine “individuo” semplicemente non compare. E questo perché la rinuncia a questo concetto (l’angusto “io” paleo-liberale chiuso nella rivendicazione egoistica dei propri diritti) faceva parte del patto tra i social- comunisti e i cattolici democratici, che lo sostituiscono con la nozione di “persona” che indica «il singolo nelle formazioni sociali» in cui solo si può realizzare.

La questione della patria, che lei intende come appartenenza identitaria e suggerisce di mettere al centro dell’educazione civica, merita da sola una prossima lettera. Mi consenta però di farle notare che, se sfogliasse la Costituzione, scoprirebbe che il termine “patria” compare solo una volta (perché Mussolini lo aveva profanato e disonorato) e per di più non ha niente a che fare con “i sacri confini nazionali” da difendere o l’italianità quale identità da salvaguardare contro la minaccia della sostituzione etnica.

La patria è il patrimonio dei padri e delle madri costituenti, vale a dire le istituzioni democratiche non separabili dai valori costituzionali: l’eguaglianza, la libertà, la pace, la giustizia, il diritto di asilo per lo straniero «che non ha garantite le libertà democratiche» . I patrioti non sono quelli che impediscono lo sbarco dei migranti, ma coloro che ogni giorno testimoniano il rifiuto della discriminazione . Cosi come patrioti non erano i fascisti che hanno svenduto la patria a Hitler e l’hanno profanata costringendo milioni di italiani ad offendere altre patrie, ma i membri dei GAP (che non erano i “gruppi di azione proletaria” come ebbe a dire, per dileggio, Berlusconi), ma i “gruppi di azione patriottica (appunto), che operavano nella Brigate Garibaldi dei patrioti comunisti italiani, protagonisti della Resistenza quale secondo Risorgimento.

Ci consenta di formare i nostri studenti ispirandoci a chi di patria si intendeva: non a Julius Evola o Giorgio Almirante, ma a Giuseppe Mazzini che ha ripetuto per tutta la vita che la patria non è un suolo da difendere avidamente ma una «dimora di libertà e uguaglianza» aperta a tutti: «Non vi è patria dove l’eguaglianza dei diritti è violata dall’esistenza di caste, privilegi, ineguaglianze. In nome del vostro amore di patria, combattete senza tregua l’esistenza di ogni privilegio, di ogni diseguaglianza sul suolo che vi ha dato vita. (Dei doveri dell’uomo). Mazzini non contrapponeva la patria all’umanità, ma la considerava il mezzo più efficace per tutelare la dignità di ogni essere umano: «I primi vostri doveri, primi almeno per importanza, sono verso l’ Umanità. Siete uomini prima di essere cittadini o padri. […] In qualunque terra voi siate, dovunque un uomo combatte per il diritto, per il giusto, per il vero, ivi è un vostro fratello: dovunque un uomo soffre, tormentato dall’errore, dall’ingiustizia, dalla tirannide, ivi è un vostro fratello. Liberi e schiavi, siete tutti fratelli. (Dei doveri dell’uomo)

E ci consenta, da educatori democratici, di trascurare le sue Linee guida, per illuminare le coscienze dei giovani con le parole di don Milani: «Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri».

Egregio Ministro, dal momento che la costruzione di una cittadinanza consapevole avviene anche attraverso l’esercizio della memoria storica e civile, Lei ci ha inviato a una circolare con cui ha bandito un concorso per le scuole con lo scopo di celebrare la «Giornata Nazionale delle Vittime Civili delle Guerre e dei Conflitti nel Mondo». Il titolo del concorso: «1945: la guerra è finita!»

Incredibile! Il 25 aprile 1945 che, prima dell’era Valditara, era semplicemente e banalmente la «liberazione dal nazifascismo» ora diventa un momento della «Giornata Nazionale delle Vittime Civili delle Guerre e dei Conflitti nel Mondo». Cosa dovrebbero ricordare le giovani generazioni nella sua bizzarra idea di memoria civile? Ecco il suo testo: «il popolo che ha subito sulla propria pelle gli orrori di quel tremendo conflitto, dai bombardamenti degli alleati alle rappresaglie nazifasciste [equiparati !] fino agli ordigni bellici inesplosi che, nei decenni a venire, hanno continuato a produrre invalidità e mutilazioni». E tutto per andare «al di là della tradizionale lettura vincitori-vinti», opposizione che attentamente sostituisce quella di antifascisti/liberatori e fascisti.

Si tratta dunque, secondo lei, di ricordare una guerra tra tante, quasi un ineluttabile evento naturale in cui tutti sono cattivi (i liberatori, gli aguzzini e i partigiani) e dunque tutti ugualmente assolti nel tribunale della neostoria.

Del resto, Ministro, devo darle atto di una certa garbata compostezza sulla memoria del 25 aprile. La sua sottosegretaria (la nostra sottosegretaria all’Istruzione) Paola Frassinetti la Festa della Liberazione l’ha festeggiata al campo 10 del Cimitero maggiore di Milano per onorare i volontari italiani delle SS. E’ immortalata in un video in mezzo a un drappello di camerati che sfidano, tra insulti e minacce, alcuni manifestanti antifascisti. Frassinetti si lascia andare alla rabbia ed esclama “ma vai aff…”. Sempre a proposito di Linee guida per l’educazione civica… Da sottosegretaria del suo Ministero Paola Frassinetti, il 28 ottobre del 2024, anniversario della marcia su Roma, ha celebrato il “fascismo immenso e rosso”.

Capisce, signor Ministro, perché ci sentiamo soli nella trincea? E perché le ho detto che è “passato al nemico” (il nemico è la parzialità, la manipolazione, la contrapposizione faziosa). Ma noi siamo combattenti testardi. Non avendo capi politici da lusingare, la nostra coscienza e la Costituzione antifascista sono le nostre uniche e inderogabili “linee guida” da seguire nel formare cittadine e cittadini liberi e consapevoli.

Egregio Ministro, spero che queste parole non mi costino quella decurtazione dello stipendio che ha inflitto a un mio collega per aver pronunciato delle parole che Lei non ha gradito. Sarebbe non solo grave ma anche di cattivo gusto anche perché di recente insieme ad altri ministri lei lo stipendio ha cercato di aumentarselo.

P. S.

Le sue Linee guida stanno conseguendo i primi risultati. Qualche giorno fa uno studente che aveva studiato la divisione dei poteri di Montesquieu ha osservato che se un ministro fa una manifestazione sotto un tribunale per difendere un altro ministro sotto processo viola la separazione dei poteri. Aggiungendo che un ministro non è un semplice cittadino ma un membro dell’esecutivo, cioè di un potere dello stato. Gli ho risposto che ha ragione e gli ho dato un ottimo voto in educazione civica.

Con cordialità

Giancarlo Burghi


lunedì 16 dicembre 2024

Audiolettura di versi dalla raccolta Bestie Animali Specie



Dalla raccolta Bestie, Animali, Specie

sezione Diario d'Occidente : Agosto 2019, pag. 76

Potete ascoltare la mia lettura cliccando qui: Lettura versi

A sottofondo un brano tratto da 'Madama' di Avishai Cohen

la riproduzione credo preveda un copyright di cui mi rendere responsabile

mercoledì 11 dicembre 2024

L'ultima puntata del 2024 di Vocale poesia

 https://sway.cloud.microsoft/rMLKdFdupOWbUBu1?ref=Link


Il podcast del giorno dopo si trova qui

Fango Radio 〜 Vocale


Con questa puntata  chiudiamo un anno intenso ricco di incontri e situazioni, ci prepariamo a risentirci con nuovi incontri suoni e percorsi ai primi del nuovo anno.

Grazie per essere parte di questo viaggio sonoro
Elisa Longo

martedì 5 novembre 2024

Sulla schiavitù in Italia, di Sergio Fontegher Bologna

Sogno anch'io, come l'autore di questo articolo (sulla rivista on line L'ospite ingrato), la diffusione di massa di opposizione a quanto viviamo. L'umiliazione del lavoro anzitutto. A me basterebbe anche un clima come quello che c'era negli anni settanta quando, cito a memoria, gli addetti di un motel sull'autostrada  si rifiutarono di servire a tavola un noto fascista di allora e di oggi.


Il 17 giugno 2024 Satnam Singh, un bracciante indiano di 31 anni che lavorava senza contratto nei campi di un’azienda agricola nei dintorni di Latina, è rimasto incastrato in un macchinario che gli ha staccato un braccio e fratturato le gambe. Nessuno ha chiamato i soccorsi. Il datore di lavoro di Satnam Singh lo ha caricato su un furgone e lasciato davanti al cancello di casa sua, insieme al braccio tranciato appoggiato in una cassetta della frutta. Satnam Singh è morto mercoledì 19 giugno a causa delle ferite e del ritardo fatale con cui sono stati chiamati i soccorsi che avrebbero potuto salvarlo.


Vorrei riuscire a capire cosa manca nel discorso sulla schiavitù, cosa impedisce di cogliere la dimensione che va ben oltre una storia di “ordinario disordine”. Vorrei riuscire a capire cosa ci ha fatto pensare che si tratta di un caso estremo di sfruttamento, dove c’è sottovalutazione, complicità a tutti i livelli, ipocrisia, parole al vento, piagnistei ma anche volontariato, persone generose, coraggiose, che documentano e denunciano, una storia, come tante, fatta di 40% di complicità, 59% d’indifferenza e 1% di “bontà”. Una storia estrema quanto si vuole ma che rientra in quella categoria fin troppo conosciuta di “ordinario disordine”. Abbiamo parlato mille volte di conseguenze del neoliberalismo ma non basta, non bastano i discorsi che stiamo facendo dagli anni 80, quei discorsi che non ci stanchiamo di riformulare quando parliamo di precariato, di neet, di bassi salari, di contratti pirata, di false cooperative. C’è un’altra dimensione che non abbiamo ancora nominato.

E l’assenza di questa dimensione risulta particolarmente evidente quando si parla di accoglienza, salvataggi in mare, scafisti, Lampedusa, rotta balcanica. Com’è possibile che il discorso sull’accoglienza si fermi a metà, concentrando i riflettori solo sul viaggio dei disperati, sull’esodo e poi i riflettori si spengono? Com’è possibile che il Governatore della Banca d’Italia ci venga a ricordare che, data la crisi demografica, abbiamo bisogno di forza lavoro migrante, e non aggiunga una parola di più sulle condizioni in cui quella forza lavoro migrante, che già c’è, viene trattata? Com’è possibile che Mattarella non abbia mai fatto esplicito cenno alla schiavitù nei suoi discorsi, non rendendosi conto di rappresentare un paese che ha fatto un salto indietro nella storia di almeno un secolo e mezzo? La servitù della gleba in Russia è stata abolita nel 1861. La Guerra di Secessione negli USA è scoppiata nello stesso anno. Ma la Zivilisation europea, la rivoluzione borghese, erano cominciate ben prima. Lo sfruttamento capitalistico, le enclosures, si sono mosse in parallelo, d’accordo. Ma gli abitanti degli slums di Londra, quelli del “Popolo degli abissi” di Jack London, avevano però la carta d’identità. Non era schiavismo. Voglio dire che la condizione di schiavitù conserva una sua specificità, non basta dire che è il gradino estremo del supersfruttamento capitalistico. È un’altra categoria, un’altra species. Forse questa nostra incapacità di coglierne la dimensione specifica oggi è proprio dovuta al fatto che essa si è talmente integrata nel modello economico-produttivo, ne è diventata un elemento talmente essenziale e imprescindibile, da far abituare il nostro occhio a guardarla senza battere ciglio.

Eppure non può continuare così. Perché se continua così finiamo inevitabilmente per dire che per debellarla bastano inasprimento delle pene, maggiori controlli, formazione e bla, bla, bla, come dicono i partiti, il sindacato, Confindustria… cioè quelli che in un modo o nell’altro, chi più chi meno, in questi ultimi vent’anni hanno contribuito a far sì che la schiavitù s’integrasse sempre più con il modello produttivo o che poco o nulla hanno fatto per impedirlo. Invece quel che ci vuole è una sanzione sociale, la repressione non basta, non è all’altezza, ci vuole l’isolamento, l’emarginazione degli schiavisti. Ma che venga dal basso, dalla società, dalla vita quotidiana! Io sogno che un giorno un proprietario di un buon ristorante, vedendo entrare i titolari di un’impresa agricola che usa sistemi analoghi a quelli dei signori Rovato di Latina, prima che prendano posto si avvicini e dica: “Signori, qui i cani possono entrare, ma gli schiavisti no” e li accompagni gentilmente alla porta. E quando il tassista, chiamato a trasportare i suddetti imprenditori a un altro ristorante, farà la stessa cosa, rifiutando di farli salire a bordo… beh, a quel punto potremo dire che l’Italia ha cominciato a ridiventare un paese civile. Oggi non lo è, perché su ciascuna pizza che viene servita nel milione di pizzerie che invadono città e campagne, montagne e spiagge, c’è il segno di una cassetta di frutta che porta il braccio amputato di un essere umano.

Sergio Fontegher Bologna

domenica 20 ottobre 2024

Da Trieste verso ogni dove Saba apre i versi del 900.

 

via del molino a vento

In ogni caso è lì, dove dice lui, che è rimasta la mia primissima infanzia. Lui però ha coltivato con amore gelosissimo per tutta la vita il suo cantuccio schivo ma non diviso dal mondo. Da lì apre per tutti la poesia del 900. Da psicanalitico prima della psicanalisi, come ebbe a dire Contini, la sua poesia tra endecasillabi di confine e settenari con qualche tintinnio di rime, è strumento d'indagine per tutti, da ogni luogo.

trieste, via dante
“TRIESTE” di Umberto SABA

Dalla raccolta “Trieste e una donna” (1910-12)

Ho attraversato tutta la città.

Poi ho salita un’erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.

Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,

è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all’ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l’ultima, s’aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un’aria strana, un’aria tormentosa,
l’aria natia.

La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.